11 dicembre 2025

Mulino Stringa Infrared 2014

"Mulino Pestasassi Stringa Infrared"


Il Mulino Pestasassi Stringa, situato a Nove, è una testimonianza affascinante di un'antica tradizione artigianale che si perde nel tempo. Questo mulino, un tempo fondamentale per la lavorazione della ceramica, non era utilizzato per macinare cereali come i mulini tradizionali, ma per pestare i sassi necessari alla produzione di terracotta e ceramiche. La sua funzione era essenziale nel trasformare le pietre in polvere finissima, un passaggio cruciale per ottenere la giusta consistenza e qualità dell’argilla, e quindi la ceramica che ha reso famoso il territorio di Nove.

Quando il Mulino Pestasassi Stringa viene ripreso in infrared, il paesaggio e l’edificio stesso acquistano un'aura misteriosa e quasi magica. L'infrarosso, che cattura la radiazione termica e non la luce visibile, rivela aspetti nascosti dell'architettura e dell'ambiente circostante, creando un contrasto intenso tra l'oscurità delle superfici dure, come le pietre del mulino, e la luminosità della vegetazione.

Il mulino, in particolare, emerge dalle immagini come una presenza solida e imponente, ma al contempo resa più eterea dalla luce infrarossa che accentua le sue linee e le sue forme. La struttura in pietra, un tempo usata per schiacciare i sassi e dare vita alla ceramica, sembra quasi respirare, come se il mulino stesso conservasse nel suo cuore la memoria dei suoni e dei movimenti di quel lavoro antico. Le macine e le ruote, simboli di un'arte che ha segnato il progresso industriale e artigianale di Nove, si stagliano ora come elementi senza tempo, quasi sospesi in un'altra dimensione, in un paesaggio che non appartiene completamente al mondo visibile.

L'effetto dell'infrarosso sul mulino e sull'ambiente circostante è anche un richiamo al passato, un modo per "guardare oltre" la superficie, per immergersi in un mondo dove la storia e la natura interagiscono in modi che l'occhio umano non è abituato a percepire. La ceramica, che nasceva da quel processo di pestaggio dei sassi, viene riproposta visivamente come un prodotto di una realtà più intima e profonda, dove la polvere e la pietra sono immerse in una luce che sembra provenire da un altro tempo.

Riprendere il Mulino Pestasassi Stringa in infrared, quindi, non è solo un atto fotografico, ma un viaggio nell’anima di un luogo che ha visto generazioni di ceramisti, dove ogni pietra e ogni ruota raccontano una storia di lavoro, tradizione e innovazione. La fotografia infrarossa, con la sua capacità di rivelare ciò che non è immediatamente visibile, è un modo perfetto per restituire al mulino un aspetto quasi mitico, per immergerci in un tempo che, purtroppo, non è più.

 





































ginkgo biloba di Sergio Sartori afi bfi

 ginkgo biloba 

di Sergio Sartori afi bfi


L’idea nasce osservando il tappeto di foglie del ginkgo biloba cadute a terra: la loro fragilità e la loro forma quasi simbolica suggeriscono subito un tema di trasformazione, di passaggio tra materia e memoria. Decido quindi di raccoglierne alcune, scegliendo quelle più integre, leggere e già prossime alla completa essiccazione. Le porto in studio e le dispongo su un foglio chiaro, lasciando che la loro posizione naturale, la caduta, l’inclinazione dei gambi, la curva delle lamelle, guidi la composizione.

Realizzo una prima serie di fotografie a colori, ravvicinate, per catturare la materialità: le venature, il giallo opaco, la fragilità dei margini. Dal materiale raccolto seleziono quattro scatti fondamentali: uno dedicato alla caduta, uno alla transizione, uno alle emanazioni, uno alla fogliolina a forma di cuore, quindi

le stampo su cartoncino MOAB rag natural 300 fine art trasformando in bianconero la parte che serve per ottenere le basi dove andranno a collocarsi le foglie vere.

Inizia quindi il montaggio: sovrappongo e incollo sulle fotografie delle foglie vere a quelle delle loro silhouettes in bianco e nero, facendo combaciare con precisione i gambi, che diventano il punto di passaggio tra i due piani dell’opera.

Il risultato è una composizione in quattro immagini/collage che raccontano un processo: la materia che cade, l’anima che si distilla e sale, il sentimento che resta come traccia ultima e insistente.




 

In questa composizione le foglie di ginkgo biloba non sono semplicemente elementi botanici, ma diventano creature al confine tra materia e memoria. 

Cadute, asciutte, ormai separate dall’albero che le ha generate, portano con sé il destino di ogni cosa che termina: perdere peso, lasciarsi andare, farsi altro.

La loro presenza nella parte bassa dell’opera — vere, gialle, fragili, rivolte a testa in giù — suggerisce il momento ultimo della vita vegetale: il contatto con la terra, il ritorno al silenzio. 

Sono foglie morte, sì, ma non  inerti. 

Sembrano ancora trattenere un ultimo respiro di forma, come se stessero preparandosi a lasciare andare la loro anima.

Ed è proprio lì che interviene la parte superiore della composizione: il bianconero fotografico non è soltanto una replica, ma una emanazione, una specie di distillato visivo. Le sagome salgono sottili, coincidenti ai gambi delle foglie vere.

 È come se la parte fisica rimanesse giù, appoggiata alla superficie della terra/immagine, mentre la parte immateriale si solleva, libera dalla gravità.

La coincidenza dei gambi diventa così un punto di passaggio: un piccolo varco attraverso cui la vita materiale e quella simbolica si separano con grazia.

 Le foglie vere stanno cedendo il posto al loro “doppio”, che non pesa, non marcisce, non cade: è ciò che resta quando il resto se ne va.

E poi quella minuscola fogliolina a forma di cuore, in negativo, sulla destra. 

Isolata, discreta, è il residuo emotivo di tutte le altre. 

Non appartiene più al mondo naturale, non ricade nel ciclo delle stagioni: è la traccia affettiva, la forma dell’amore, della cura, del ricordo. 

Come se, dalla dissoluzione del corpo delle foglie, rimanesse soltanto un piccolo sentimento chiaro, un battito che continua ostinatamente.

Nel suo insieme, voglio raccontare che nulla scompare davvero: la materia cade, l’anima sale, e nell’intervallo tra questi due movimenti nasce l’immagine — fragile e luminosa — di ciò che abbiamo amato.







03 dicembre 2025

2007 fabbrica alta - Schio

 





Lanerossi Schio 2007

Quando faccio un passo in un sito abbandonato mi sento come se entrassi in una macchina del tempo. 

Cerco di sentire le emozioni del suo passato ed è quello che voglio mostrare nelle mie immagini.

Quando le persone sono alla ricerca di mio lavoro e sollevano una domanda su di esso, allora mi sento di esserci riuscito… e quando le persone guardano le mie foto, voglio che sentano quel brivido di nostalgia e di curiosità che sento io quando sto lì in mezzo alle rovine. 

Voglio che si chiedano cosa e successo, chi ci sia stato, e cosa si provi a essere li in quel momento. 

Se riesco a trasmettere questo, allora so di aver fatto il mio lavoro.













Entrare in un sito industriale abbandonato è un’esperienza che mescola sensazioni contrastanti, quasi come varcare la soglia di un mondo sospeso.













All’inizio c’è il silenzio: un silenzio diverso, denso, che sembra trattenere gli echi di ciò che è stato. 

Ogni passo risuona amplificato, e la polvere che si solleva diventa un promemoria del tempo trascorso.












Poi arriva la curiosità

Ogni stanza, ogni corridoio buio, ogni macchinario arrugginito sembra raccontare un frammento di storia: persone che lavoravano lì, rumore, fatica, routine.

 Ora tutto è fermo, e il contrasto affascina.

 Ci si sente quasi archeologi del presente, esploratori di ciò che la società ha dimenticato






























Subito sotto, però, scorre una vena di inquietudine

Le strutture fatiscenti, le ombre che cambiano forma, il vento che fa sbattere una lamiera — tutto può far sentire osservati, come se qualcosa fosse rimasto a vegliare quel luogo. 

Non è paura vera, ma una tensione costante che tiene all’erta i sensi.















E poi c’è una strana forma di melanconia:

 vedere la natura che riprende spazio, l’edera che arrampica sulle pareti,

 le finestre rotte che lasciano entrare la luce in diagonali lente…

 tutto parla di trasformazione, di ciò che nasce mentre qualcos’altro muore.




























































































Alla fine, uscire da un posto così lascia addosso un misto di
liberazione, fascino e nostalgia

Come se si fosse visitato un fantasma, non di una persona, ma di un’epoca